Helen Alder, Head of Knowledge presso il Chartered Institute of Procurement & Supply (CIPS), sostiene che in alcune organizzazioni, prima della pandemia, la gestione del rischio si limitasse essenzialmente alla compilazione di un registro che nessuno – top management compreso – prendeva in considerazione.
“La mia impressione è che, nella maggior parte delle aziende, vi sia un registro per la gestione dei rischi che viene compilato da alcune persone, solitamente i capireparto,” dichiara Alder, “e che questi rischi vengano poi trasmessi al top management per l’identificazione delle minacce più serie.”
Considerando tuttavia l’insieme dei settori, il rapporto di McKinsey Risk, resilience, and rebalancing in global value chains indica che le interruzioni della supply chain della durata di un mese o superiore si verificano mediamente ogni 3,7 anni. Questo fatto, da solo, è un motivo sufficiente per ripensare al modo in cui i fattori di rischio vengono valutati e mitigati.
Le strategie di mitigazione dei rischi per una supply chain di successo prevedono la valutazione e l'identificazione dei rischi esistenti e la loro classificazione per priorità secondo criteri di probabilità e di impatto, osserva il CIPS. I profili di rischio devono essere riesaminati periodicamente e occorre adottare misure adeguate per evitare possibili esposizioni. Serve un efficace processo di due diligence che accerti la qualità e la sostenibilità dei fornitori, ma questi compiti non dovrebbero spettare esclusivamente al team di procurement.
La gestione del rischio deve essere un problema condiviso, spiega Alder. È indispensabile che tutti diano il proprio contributo, perché spesso sono i team operativi che dispongono di un budget ad accorgersi di forme di rischio che gli altri non possono vedere.
“Dobbiamo trovare il modo di intercettare alcune conversazioni e altri aspetti di ciò che accade in azienda che forse in passato sono stati trascurati,” afferma.